Premessa: sto barando. Non ho letto il libro in italiano edito da Fazi, ma la versione inglese in un unico volume. Comprata eoni fa, riletta una seconda volta quando la mia conoscenza della lingua era decisamente migliorata. 

Comincio da questo libro che, uscito nel 1992, ha avuto un successo molto duraturo, ponendo all’attenzione del pubblico anglosassone Hilary Mantel. Chiariamo una cosa: a me Hilary Mantel piace. Anzi, la adoro e la considero una delle voci più interessanti della letteratura inglese contemporanea. I romanzi sulla storia inglese (Wolf Hall e Bring up the bodies), ma ancora meglio i suoi libri ambientati nella contemporaneità (in particolare il memoriale Giving up the ghost) coniugano intrecci profondi, uno stile di scrittura ottimo e complesso che tocca vette di sublime e una grandissima capacità di scavare nella psicologia umana.

Detto questo, La storia segreta della Rivoluzione vuoi perché è un’opera prima, vuoi perché la materia è terribilmente complessa, è un libro che non funziona. Anzi, che oltre a non funzionare, per chi mastichi un po’ la materia è proprio irritante. 

Cominciamo dal titolo. In Italiano gioco forza si è perduto il gioco di parole: il titolo originale è A place of greater safety, che allude in maniera abbastanza trasparente al Comitato di Salute Pubblica (in inglese Committee of Public Safety), il governo che causerà lo scontro tra i tre protagonisti.

L’impianto narrativo non è particolarmente originale, ma si aggancia a una tradizione dei romanzi sulla rivoluzione: raccontare le vita parallele e intrecciate di alcuni dei principali rivoluzionari. E, come in buona parte della letteratura e della cinematografia della Rivoluzione francese, si tratta di Robespierre, Desmoulins e Danton (sì, chi mastica la materia sa già che più che Anatole France qui i danni nella ricezione letteraria li ha fatti Danton di Wajda). Li seguiamo dalla tenera età fino alla morte (anche qui, niente d nuovo), in particolare seguiamo le vicende alterne della loro vita privata (da cui il titolo dell’edizione italiana). Qui inizia il primo problema: è una scelta più che legittima concentrarsi sulla biografia personale (per quanto poi poco se ne sappia) e anche inventare, ma quello che esce fuori dal tessuto narrativo è che i rivoluzionari agiscano solo e soltanto in base alle loro relazioni personali, i loro affetti, le loro antipatie e i loro impulsi. Che non sia mai la situazione esterna a cambiare i loro atteggiamenti, ma il contrario, che sia solo il privato a influenzare il politico, fino ad arrivare a vette di assurdità che distruggono il tessuto narrativo (andate a vedere come viene affrontata da Mantel la condanna di Danton e Desmoulins e soprattutto la motivazione…). Più che parlare di rivoluzionari, sembra che il libro tratti di adolescenti capricciosi. È ormai indagato e acclarato dalla storiografia il ruolo che l’amicizia (intesa in senso politico e morale) ha nella politica giacobina e robespierrista in particolare, ma qui la nazione viene utilizzata per ridurre il processo rivoluzionario a soap-opera di infimo ordine. Con il risultato, oltretutto, di rendere la narrazione estremamente noiosa.

Un altro punto problematico è la caratterizzazione dei protagonisti. Mantel stessa si definisce “robespierrista” (ma dubito che abbia in mente la definizione di Mathies o di Vovelle), cioè in sostanza dice che Robespierre le sta simpatico. Questa simpatia, però, si manifesta non cercando di approfondire romanzescamente l’agire del personaggio, soprattutto là dove azioni e decisioni sembrano incoerenti, crudeli e ingiustificate, ma nel renderlo una sorta di bamboccio in balia degli altrui sentimenti (quelli delle donne che lo circondano) o di cattivi consigli (quelli di Saint-Just, ovviamente). 

Desmoulins, al solito, rimane Desmoulins. È forse il personaggio che Mantel dipinge come più piacevole per il lettore, ingenuo, pieno di buone intenzioni, sempre un po’ bambino e con la battuta pronta. Uno a cui non si può non voler bene. In questo caso nessuno sforzo di andare oltre la caratterizzazione tipica del “Procureur de la lanterne”.

Danton è dipinto come una canaglia, gozzovigliatore, amante dei piaceri, sicuro di sé, spregiudicato e violento: pur con tratti così negativi, è l’unico personaggio del libro che almeno non sembra un automa trasparente. Forse è anche quello che presenta una maggiore novità, rispetto all’eroe buono della tradizione liberale.

Intorno ai nostri tre, ruota una costellazione di personaggi storici minori, la cui caratterizzazione lascia abbastanza a desiderare (scelta più legittima) fino a ricadere nello stereotipo puro (Saint-Just, la famiglia Duplay). 

Cioè che forse mi fa più arrabbiare di questo romanzo è che l’autrice non fa mistero dei suoi studi (che comunque emergono bene dalla caratterizzazione dei personaggi e dagli episodi raccontati), ma si vede altrettanto chiaramente che le fonti usate sono in larga misura le solite fonti termidoriane e reazionarie, che non sono poste però sotto un vaglio critico sufficiente. A poco vale saccheggiare le memorie di alcuni testimoni diretti (Charlotte Robespierre, Elisabet Duplay), se poi non si cerca di integrare racconti giocoforza parziali, ma si preferisce continuare a narrare ciò che altri hanno già raccontato e in modo migliore.

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